giovedì 26 novembre 2009

Faccio outing

Qualche giorno fa ascoltavo in tv Ilaria D'Amico raccontare che, da brava italiana, ai suoi esordi giornalistici ha ricevuto una 'spintarella' dall'amico di famiglia Renzo Arbore. Ebbene sì, lo confesso: anch'io ho ricevuto il mio 'aiutino da casa', nella persona di un amico di babbo.
Odiando profondamente il nostrano costume del figlio del cugino dell'amico del capo che, chissà per quale insano motivo, dovrebbe avere quella chance in più rispetto al figlio di nessuno, il mio rifiuto indignato è arrivato all'istante: "Io la raccomandata non la faccio. Se arriverò da qualche parte, lo farò solo con i miei mezzi". Benedetta ingenità.
Passano i mesi, dò fondo agli ultimi cv non ancora spediti, mi lambicco il cervello alla ricerca dell'idea che mi avrebbe fatto svoltare e che non arriva. Dopo un intenso pomeriggio di scontri interiori, metto orgoglio e dignità da parte e faccio la telefonata che "mi avrebbe aperto le porte". Mi fissano un colloquio con la redazione di un quotidiano on line, si parla del più e del meno. C'è anche l'editore che tiene a sottolineare che il mio stato di 'raccomandata' non mi avrebbe fatto ottenere privilegi. Niente di più vero. Secondo incontro con il direttore, mi spiegano quello che avrei dovuto fare, dettagli tecnici per l'invio degli articoli (visto che non avrei lavorato in redazione) e parte il periodo di prova. Un mese, dicono, e poi avrei potuto firmare. Il mese diventa due mesi e mezzo, durante i quali trotterello da una conferenza stampa all'altra. Ligia al dovere scrivo e invio, scrivo e invio, scrivo e invio. Il tempo passa, ma di un contratto neanche l'ombra. Ok, mi dico, mi stanno mettendo alla prova; sono seri, mica possono fidarsi del primo che arriva.
Con la redazione contatti inesistenti, io invio, loro pubblicano. Nessun riscontro, mai. Per quel che ne so potrei scrivere un articolo pieno di insulti e dopo qualche ora lo vedrei on line. Inizio a telefonare, parte lo scaricabarile: se ne occupa quello, no l'altro, no l'altro. Alla fine individuo il soggetto da tartassare: l'editore. Chiamate su chiamate, continui rinvii. Poi un giorno mi chiamano: è pronto il contratto, si firma. Tre mesi per 450 euro lorde complessive che non incasserò mai. Non faccio la schizzinosa e firmo, almeno, penso, posso iniziare a raccogliere gli articoli per l'iscrizione all'albo. In tre mesi ne scrivo più di cento. Conosco molte persone, ma non imparo un bel niente sulla professione. Quello che sapevo fare è quello che ancora so fare. Se sbaglio non lo so, come non so se sono una potenziale Pulitzer (ma lo escluderei...).
Ad aprile scade il contratto, ancora silenzio. Ricomincio con le telefonate, andrei anche in redazione, ma mi dicono che non troverei nessuno e farei solo un viaggio a vuoto. Inizio a lamentarmi e mi sento rispondere che se mollo, sulla loro scrivania c'è una pila di cv di ragazzi pronta a prendere il mio posto. Replico che almeno quei pochi soldi avrebbero potuto darmeli, visto che è tutto nero su bianco, ma anche in questo caso la risposta è pronta: posso anche aprire una controversia, ma poi dovrei scordarmi l'idea di scrivere per un qualche giornale della zona. A settembre firmo la proroga: un anno a 350 euro lorde complessive. Oltre a non essere uno scherzo, è anche ironico perchè, per un anno, avrei preso meno che per tre mesi. Mi dicono che quei soldi non li vedrò, ma in compenso non avrei perso i mesi fuori contratto.
Morale della storia: da oltre un anno collaboro con questo quotidiano, cerco le notizie, vado alle conferenze, scrivo e invio. Non ho ricevuto un euro e sono angosciata dal pensiero che al danno si possa aggiungere la beffa e che, a differenza di quanto mi hanno garantito, l'anno trascorso non valga neppure per l'scrizione all'albo. E pensare che sono raccomandata...

1 commento:

  1. è dura la gavetta per diventare giornalisti amica mia. lo so bene anch'io. in bocca al lupo comunque!

    Fabrizio

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